Oggi vogliamo raccontarvi una storia diversa dal solito. Non parla di mobili ma di chi li fa. O meglio di chi li faceva fino ad oggi… parla Di Bunja, falegname de Laquercia21 da 3 anni e nostro amico, ragazzo Gambiano al quale è stato negato il diritto di vivere e lavorare in Italia. Una storia sbagliata
Mi chiamo Nicola e sono titolare insieme al mio socio Luca di una piccola falegnameria in Umbria. Una microscopica realtà artigianale, come migliaia in Italia, che nel tempo si è conquistata una sua nicchia ed è arrivata ad avere, oltre a noi fondatori, 3 dipendenti.
Bunja arriva da noi nel 2017: è un ragazzo ventitreenne proveniente dal Gambia, parcheggiato in uno SPRAR in attesa che lo stato italiano si pronunci sulla legittimità della sua richiesta di asilo politico. Tramite l’Arci, che gestisce il suo centro di accoglienza, viene attivato per lui un tirocinio di lavoro presso la nostra falegnameria. Noi abbiamo bisogno di un aiuto in bottega e Bunja si rivela subito un ottimo lavoratore. Non aspettiamo neanche che finisca il tirocinio e dopo 4 mesi gli attiviamo un contratto di apprendistato, che, per chi non lo sapesse, è equiparato in Italia al contratto a tempo indeterminato.
Parallelamente a questa felice sorte occupazionale, per Bunja (come per decine di migliaia di persone nelle sue stesse condizioni) si consuma un’odissea giudiziaria che, di grado in grado, di tribunale in tribunale, in un lento stillicidio burocratico, si conclude dopo 3 anni con la definitiva bocciatura della sua richiesta di asilo.
Bunja non può stare più in Italia: poco importa allo Stato se nel frattempo ha trovato un lavoro, paga tasse e contributi da più di 2 anni, ha preso una casa in affitto con regolare contratto, studia per prendere la patente; conduce insomma una vita normale, fatta di responsabilità, relazioni, progetti. Esattamente come tutti noi.
Il paradosso è palese: lo stato italiano accoglie una persona straniera, ci mette 3 anni a deliberare se sia meritoria o no di risiedere nel nostro paese, e quando questa è ormai integrata nel tessuto sociale e produttivo, la espelle come se niente fosse. Non importa se in questo periodo hai lavorato, hai imparato la lingua e hai costruito legami personali (e non hai commesso alcun reato), in un soffio tutto questo ti viene portato via.
Dietro ai proclami urlati dalla politica e amplificati dal circo mediatico la realtà è che in Italia ad oggi non esiste alcun vero progetto di integrazione. L’immigrazione è un ottimo tema politico, strumentalizzabile all’infinito dalle varie parti, ma nessuno tra i nostri legislatori in questi anni si è preso la briga di fare una legge che da diritto a chi lavora con regolare contratto di stare in Italia.
Le conseguenze, aldilà di qualsiasi giudizio politico, sono molteplici: dal punto di vista umano si azzera, con la notifica di un ordine di espulsione, tutto lo sforzo che una persona può fare per costruirsi una vita, costringendola a ricominciare daccapo un percorso di dignità personale e di ricerca di stabilità ( pur garantito dalle nostre lungimiranti costituzioni occidentali), negandole di fatto un futuro.
Ma se proprio non vogliamo adottare un’ottica umanitaria, moltiplichiamo la storia di Bunja per alcune migliaia di casi analoghi nel nostro paese e pensiamo ai risvolti socio-economici di questo atteggiamento criminalizzante nei confronti dell’immigrazione: ogni espulso non viene rimpatriato, ma va ad ingrossare le fila degli irregolari, un esercito invisibile di emarginati e sfruttati. In questo contesto il caporalato prospera e le narco-mafie trovano facile bassa manovalanza. Tutto il gettito fiscale e la contribuzione generati da contratti di lavoro regolari viene cancellata, con grave ammanco per un sistema nazionale pensionistico già vacillante. Senza contare il danno subito da aziende come la nostra: privandoci di colpo di un lavoratore formato, in cui abbiamo investito, siamo costretti a ricominciare daccapo una formazione specifica, che talvolta dura anni, con ripercussioni pesanti nella nostra fragile economia microaziendale.
In questo tempo le abbiamo tentate tutte, chiedendo pareri ad avvocati, sindacati, consulenti del lavoro, associazioni di migranti: sembra che nessuno possa fare nulla per rimediare a questo tragico paradosso prodotto da anni di mediocre politica fatta a colpi di sondaggi e da una macchina della giustizia che nella sua impersonale burocrazia ha perso ogni capacità di discernere con umanità.
Bunja da oggi non lavora più qui. Siamo costretti a licenziarlo, perché lo Stato, nella sua ipocrisia, non ha neanche inventato un sistema formale adatto in questi frangenti, lasciando alle aziende l’onere (anche economico) di provvedere all’interruzione del rapporto di lavoro.
Nella lettera di licenziamento dovremo barrare la sezione “giusta causa”, ma quando si tratterà di scriverne la motivazione che formula potrò usare? E soprattutto, quando presenterò la lettera a Bunja per fargliela firmare, come potrò giustificare ai suoi occhi questa ingiustizia?
